sabato 7 aprile 2012

Immagini da "La casa della fuerza", di Angelica Liddell ( Odeon Teatro dell'Europa, Parigi)










Si scambiano confessioni d’una banalità lacerante, sedute a un tavolo di bar o d' osteria sullo sfondo di canti popolari messicani, un gruppo di musicisti sorti  dal nulla ad accompagnarle. 
Le loro parole crude, crudeli, scandite a tratti si interrompono in pause riempite dal fumo di sigarette aspirate, di liquidi caldi d’alcol attraverso le vene. Il dialogo riprende come un fiume, un flusso, una lava di parole e fango, poi di voci rauche, rabbiose, inesauste quasi cantando dal fondo dei visceri, danzatrici, baccanti o semplici donne in preda a uno strano furore dionisiaco. Attraverso un proprio rituale raccontano la ricerca inesausta d'amore posto di fronte alla propria deriva, la solitudine esistenziale e la rabbia che esplode improvvisa come una forza di vita contro implacabile l’imposizione di violenza nel rapporto all'altro. La violenza della società nella politica messicana come quella fatta alle donne in un mondo ancora dominato da strutture misogine e machiste. Sullo sfondo sono i canti d’amore e di rabbia, di vitalità e di resistenza, dalla carica vitale esplosiva, rabbiosa, bacchica quasi , arrivano dai visceri dell’ebbrezza o della disperazione nelle voci delle tre donne.

Tra loro e' il personaggio autobiografico della regista,Angelica Liddell, con la sua forza di vita là fuori nell’eccesso, nella rivalsa, nell’estromissione al limite del sè; la sua voce si scaglia contro quella barriera di pudore che, come la nomina Liddell, una volta oltrepassata, simile a un muro del suono, lascia posto all’emergenza di un'altra voce,  d’un corpo come pura presenza scenica, auto-finzione, verità poetica del sè.  


 Teatro dei corpi
E' un teatro profondamente fisico, coreografato in un senso pur senza essere danzato, primariamente visivo, teatro d’immagini lasciate agire nel loro potere segnico, nel loro peso di presenza.
Essere là,  darsi prima d’ogni comprensione, un mostrarsi che parla facendo parlare, gridare, espellere, sudare o sanguinare questo eccesso di vita, di materia direttamente dai corpi in esubero, andando a cercare nel loro grido ultimo, irreversibile , nella nudità, nell’eccesso, nell’”impudore” del sé come veicolo libertario d'espressione. Sono nell’estromissione della propria bile nera, collerica, ora bruciante come fuoco ora malinconica come acqua, materia di vita, sintomi e scorie nelle parole che si riversano attraverso la vitalità frammentaria delle voci raccontandosi.


Una donna prende l’altra per i capelli, la trascina per la forza dei capelli dall’altro lato del tavolo, al bordo quasi, in questo faccia a faccia tensivo, violento tra le due fino a farla precipitare dopo che questa si é accasciata, dormente sotto effetto dell’alcool.
Bevono e fumano al tavolo in pause silenziose. Le accarezza la testa poi la trascina, la costringe a sollevarsi  a lottare sopra il tavolo, rovesciando sedie a terra nell’atto. Sullo sfondo ritmico invasivo di cantari popolari messicani gridano il dolore di vivere, la solitudine e la rinuncia a  sé.


Due donne trascinano una terza di peso, gli occhi chiusi, a metà denudata sull’ ampio abito lungo, la depongono al suolo al centro della scena, la musica pervasiva di pianoforte, questa volta è nell'esecuzione di Glenn Gould.


Cespugli di fiori enormi, smisurati dalle tonalità vivide a circoscrivere lo spazio. 
I fiori ritornano  a più riprese nel corso dello spettacolo: mazzi di fiori sullo sfondo di  corpi nudi offrendosi agli occhi degli spettatori, fiori tra i capelli, fiori per adornarsi, o deposti al bordo del tavolo nella conversazione intima. Più tardi saranno bouquet di fiori gettati con violenza al suolo, fatti a pezzi per "rompere quello che resta", infine un’auto riempita di vasi fioriti per commemorare le giovani donne vittime delle stragi di Chihuahua.

Si espongono seni nudi su abiti lunghi, tradizionalmente  messicani. Si denudano metaforicamente, letteralmente raccontano o meglio lasciano affiorare frammenti delle loro esistenze, voci di corpi.
 “ All’interno esplodo; all’interno mi guardo ed è come se avessi vent’anni”
“Vivrete, fotterete, morirete e niente di quello che potrete fare cambierà l’idea dell’uomo.”
“Come se fossi una cosa minuscola con un’ impressione di solitudine immensa . Come se non avessi alcuna importanza, come se non fossi una persona, e si calpestasse qualcosa di molto piccolo”.

Sputano il sangue e l'anima, vomitano fuori la collera e le parole, la violenza e la solitudine. Sono  in questo “impudore” o nudità aggredente d’un corpo proclamato, estromesso, assunto fino al limite, lavorando giustamente sui limiti di quello che si puo’ riuscire a espellere, a gettare fuori partendo “dalle proprie notti”, come afferma la Liddell.
Si spostano su “una linea sottile tra costruzione e sentimento reale” perché il male deve essere attraversato ai suoi vari livelli d’esistenza, mostrato in tutti i suoi risvolti, dal volto intimo, individuale, autobiografico per la regista a quello collettivo della società messicana,
guardato in faccia, gridato, forse infine esorcizzato attraverso le cinque ore di spettacolo. 









II parte

 A. Liddell: “la casa della forza é la casa della solitudine. E’ un luogo dove si compensa la disfatta spirituale con lo sfinimento fisico. Il luogo dove non si é amati,
 dove si esercita un non-sentire, un non-sentimento per compensare il troppo pieno del sentimento. E’ Il luogo dell’umiliazione e della frustrazione. “

“La solitudine e la forza si sono date qui battaglia senza respiro. La forza mi ha permesso di scavare al più profondo della debolezza e della vulnerabilità. La superficie (la violenza, il sesso, la ferita) é diventata un modo di svelare le convulsioni più spaventose dell’intimo. La superficie rivela il segreto”.

La casa della forza é forse il lavoro nel quale ho voluto cercare più ardentemente il senso d’un esistenza,un modo di sopravvivermi. Ho lavorato con il dolore, senza mediazioni in una messa a nudo dell’anima, in una sorta di pornografia spirituale. Bisognava assolutamente uscire da quel tunnel.”

 “La vita é un luogo dove si lascia per traccia poco più che un laccio schiacciato sull’asfalto; l’amore é destinato al fallimento, l’intelligenza al fallimento, ci distruggiamo gli un gli altri per codardia, umiliamo e siamo umiliati fino alla fine.”


Sono distese, i corpi nudi, aperti, il sesso esposto e si confessano, parlano di dis-amore, di  derive esistenziali macchiate di violenza, di sangue, lasciate alla sola forza fisica in azione. Scorrono dietro di loro immagini di guerra dai media, il conflitto israeliano-palestinese che osservano indifferenti attraverso lo schermo del televisione. Nel montaggio i titoli dai giornali sono lasciati alla loro letterarietà là dove il linguaggio, messo di fronte al proprio limite, cede il posto a questi incontri casuali di voci , eco di notizie alle loro orecchie, ai volti anonimi d'altre donne scorrendo sullo schermo televisivo.



Ci sono divani, molti divani, un’armata di divani perché come afferma la narratrice“sono i nostri letti di bambini o di boia”; sono divani logori, laceri, divani di appartamenti solitari la sera, divani dove si resta per ore di fronte a un  televisore o a un computer in rapporti virtuali all’altro, qui perfino nel sesso virtuale all’altro.
Sono divani che si prende il tempo di spostare uno dopo l’altro, di spingere di peso per riempire la scena,
si iscrive il terrore, la paura gridata dalla voce femminile affermando: “ mi fa spaventosamente male il tempo che passa”;
là si pratica “il non-sentimento”,  “la non-intelligenza”, “una ginnastica psicopatica dell'anima” fatta di sollevamenti di pesi all’infinito, allo spossamento sullo sfondo d’una musica lancinante di pianoforte.
Sono divani dove si resta distesi, allungati, ravvolti in camice da notte bianche macchiate di sangue oppure stretti all’altro in sospensione dolorosa, in omissione di sentire,“omissione d’amore” come ripete il monologo.

Sono divani tra i quali si inizia a correre come in un labirinto senza fine,
sui quali le tre donne come folli saltano entrando e uscendo di scena,
vi si precipitano senza direzione;
sono divani fatti per disintegrare gli ultimi mazzi di fiori, per gettarli contro violentemente nella pioggia di polvere e bozzoli che lasciano cadere ai loro piedi, 
 gli steli rimasti nelle loro mani vuote. 



Gettano terra o detriti di carbone al suolo, riempiono la scena di terra, sacco dopo sacco, la trasportano di peso con il sudore. 
Prendono il tempo, fisicamente, di estenuare l’atto, pagare il dovuto, sfinire i corpi, fino a costruire questo spazio, distesa sopraelevata, zona oscura rilucente dove  essere lì, su quella terra di brace nera-rilucente, e emettere l’ultimo grido, semplicemente. La terra, dunque, per riempire e svuotare la scena, per scavare al fondo dei corpi, toccare la ferita, sfinirli fisicamente, metterli in condizioni di lanciare quell’unico grido, lancinante, e poi ancora spazzare via tutto, ripulire, svuotare a colpi di pala la scena.
Il movimento di riempire e svuotare ripetutamente nello spettacolo.




Terza parte


“ Il mio paese mi fa male. Mi fa male vedere giovani legati al traffico di droga farsi uccidere, vederli uccidersi gli un gli altri come fosse un gioco”.

“ Fa ormai parte del nostro quotidiano, della nostra vita di tutti i giorni qui. Credo di poter dire senza sbagliarmi che ogni famiglia di Chihuahua ha almeno un cugino, uno zio, un fratello, un parente prossimo o lontano, un vicino o una conoscenza che è stato testimone d’una fucilata, che si è fatto aggredire o che è stato ucciso”.

“In quanto donna sei molto più vulnerabile, più esposta. A Ciudad Juarez siamo tutte state segnate da queste storie di ragazze rapite e violate. La città è coperta di manifesti con il loro volto. Sono belle, talmente belle, si direbbe che sono state scelte per questo, perché erano giovani e d’una tale bellezza”.

Tre giovani messicane raccontano la storia di Ciudad Juarez, descrivono i crimini che accadono in questa città divenuta “zona di non diritto”, rendendo omaggio alle giovani vittime di tale genocidio.


Sono queste croci rosse deposte, auto-piantate, cimitero di croci con abiti appesi sopra e fiori commemorativi d’un auto ricoperta, più tardi rovesciata.
Sono tre corpi di giovani donne dal volto celato da una cascata di capelli neri fittizi.
Corpi messianici di giovani messicane violate, abiti appesi di donne senza corpo, corpi morti di giovani trucidate, corpi distesi al suolo o allungati  attraverso le croci.
Dopo il rito di purificazione, si lavano i piedi togliendosi le capigliature rilucenti- gli stessi corpi si sollevano in ribellione, pieni di rabbia, in rivolta percuotente nel fiume irreversibile del loro monologo urlato, implacabile.
 Lq musica di violoncelloè di Bach questa volta; la simulazione parodica della forza bruta ne“l’uomo più potente di Spagna” é qui infine messa a tacere, ricoperta come la sua massa di piccole figurine di cera poste dal coro delle donne su scena , questi prototipi di “uomini fragili”, inutili, gentili,
 altro modello d’essere contro la misoginia e il machismo dominanti nell’ordinamento  tradizionale di tale società.   








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